-di Giuseppe Esposito-
Quella tra lunedì 25 e martedì 26 ottobre del 1954 fu una delle notti più terribili che Salerno ricordi. La pioggia cominciò a cadere dall’una del pomeriggio. Alle cinque prese a divenire più intensa per trasformarsi durante la notte in un vero e proprio nubifragio. Si pensi che tra le otto e la mezzanotte vennero giù 500 mm di pioggia, laddove, in media nell’intero anno ne cadono, su Salerno, 913 mm. Cioè in quattro ore cadde la pioggia di un intero semestre.
Fu colpita tutta la costiera amalfitana, fino a Salerno. L’epicentro fu a Cava de’ Tirreni, sul Monte Liberatore. I centri più danneggiati furono Vietri, Cava, Maiori, Minori e Tramonti.
Il flagello fu terribile, immense frane vennero giù dai monti circostanti, enormi voragini si aprirono nel terreno, crollarono ponti e strade e le ferrovie furono spazzate via. L’ammontare dei danni fu calcolati, successivamente, in 54 miliardi dell’epoca, che tradotti oggi in euro equivarrebbero a circa 870 milioni.
Una immane frana si staccò da un monte disboscato da poco e si abbatté su Molina di Vietri radendo al suolo ogni cosa, compreso l’antico ponte detto Ponte del Diavolo.
I due torrenti della zona il Bonea ed il Cavaiola si gonfiarono ed esondando trascinarono a valle tanti di quei detriti da far avanzare la linea di costa. Infatti l’odierna spiaggia di Vietri fu originata in questo modo. Ma tutta la linea di costa tra Salerno ed Amalfi risultò modificata.
Maiori fu stravolta dallo straripamento del torrente Reginna che, gonfio d’acque ed ostruito dai tronchi degli alberi abbattuti, erose le fondamenta di tutti i palazzi costruiti lungo il suo corso, facendoli crollare tutti. Successivamente la ricostruzione rese il lungomare del borgo più simile ad uno di quelli della riviera romagnola, piuttosto che a quelli degli altri borghi di quella amalfitana.
Si contarono alla fine 37 vittime i cui nomi sono incisi su una lapide di marmo affissa in municipio.
A Salerno la pioggia fece straripare il Fusandola ed il Rafastia, i due torrenti cittadini che arrecarono gravi danni ai quartieri di Canalone, Annunziata, Olivieri e Calata San Vito, cioè alle zone occidentali della città.
Il Fusandola si gonfiò esondando a causa di una enorme frana staccatasi dal monte San Liberatore e portò via tutto quanto incontrava sulla sua strada verso il mare. Una massa enorme di fango si abbattè su via Spinosa facendo crollare diversi palazzi e mietendo molte vittime. Il Rafastia che scorreva sotto il manto stradale fece scoppiare via Velia e trascinò tonnellate di fango a valle. La frana si arrestò nelle vicinanze della chiesa dell’Annunziata. Lo spettacolo che si presentò il giorno dopo ai soccorritori fu orribile, nella massa fangosa che raggiungeva i primi piani dei palazzi vi era un groviglio di masserizie e di cadaveri. Altri corpi furono trovati nella villa Comunale e nel mare antistante Santa Teresa.
Nel rione Olivieri, una frana staccatasi dal costone che lo sovrasta divelse dalle fondamenta il palazzo Mazzariello e lo trascinò fino al mare.
Anche l’Irno esondò e nella notte trascinò gli abitanti delle zone lungo il suo corso provocando 8 morti.
In quel periodo Salerno era priva di amministrazione comunale, sciolta l’anno precedente, ed il prefetto Salazar risiedeva a Napoli pertanto la macchina dei soccorsi fu lenta a mettersi in moto. Inoltre, essendo il cataclisma avvenuto di notte, rese i soccorsi più difficili.
L’Ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona ancora sito in via Vernieri, non fu in grado di accogliere tutti i feriti. Si pensò quindi, in quei giorni, alla costruzione di un nuovo ospedale che tenesse conto anche della crescita demografica in corso. Della progettazione della nuova sede ospedaliera fu incaricato l’ing. Matteo Guida e l’inaugurazione avvenne il 23 novembre del 1980.
Nei giorni seguenti all’alluvione si contarono 10.000 sfollati cui fu possibile dare assistenza grazie agli aiuti arrivati da ogni parte d’Italia, soprattutto attraverso quella che fu chiamata “Catena della solidarietà”, organizzata da Vittorio Veltroni, speaker della RAI e padre di Walter.
Ma anche il governo fece la sua parte, furono stanziati moti contributi che permisero di avviare la ricostruzione e la crescita della città verso oriente, a partire dai terreni immediatamente dopo la Stazione ferroviaria. Oggi la zona orientale è quella più densamente popolata.
Sul settimanale “Epoca”, Alfonso Gatto che allora era a Milano, scrisse:
Sono note scritte in fretta in questa notte. Il giornale deve uscire e io sono nato a Salerno e conosco piazza Luciani, Porta Catena e quel palazzo Olivieri che, come un piccolo grattacielo scende al mare di via Ligea. Sono i luoghi del nubifragio, erano i luoghi dell’amor, delle prime malinconiche affacciate, con la testa sulle mani, dalla terrazza del golfo. Mi hanno telefonato molti amici. Salerno sono io, Amalfi è Afeltra, intento ora al Corriere della Sera a pensare a titoli di lutto per la sua piccola repubblica.”
L’opera di ricostruzione fu lunga e resa anche difficile da molti speculatori intenzionati ad arricchirsi approfittando dei notevoli contributi del governo.
Alfonso Menna, che diverrà sindaco di Salerno, due anni più tardi ebbe a scrivere:
L’alluvione di Salerno è stata una delle calamità più gravi della storia europea. La natura aveva potuto infierire sugli uomini che non avevano saputo difendersi con una lungimirante politica di gestione del territorio.
Sono passati quasi settant’anni, ma sembra che la lezione ancora non l’abbiamo appresa.
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Foto Cesbim
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